Newsletter No 9 – 18/1/2016

“Nessun fanciullo sia sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”

Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza

Indice:

  1. Colpita l’Università di Bir Zeit
  2. Effetti collaterali delle “esercitazioni militari” israeliane
  3. Solidarietà palestinese contro l’occupazione
  4. Tombe cristiane profanate
  5. I ragazzi di Hares

I – Colpita l’Università di Bir Zeit

Proseguono gli attacchi delle forze di occupazione contro la libertà di espressione e il diritto all’istruzione, che vedono come bersaglio privilegiato le Università palestinesi. L’ultima ad essere stata colpita è l’Università di Bir Zeit, vicino a Ramallah: lunedì 11 gennaio, nel cuore della notte, l’esercito israeliano ha compiuto un raid all’interno del campus con 15 veicoli militari. Dopo aver forzato il sistema di sicurezza con atti intimidatori nei confronti del personale, i soldati hanno danneggiato e confiscato materiali e computer nella facoltà di Scienze e negli spazi del Consiglio Studentesco. Immediata la denuncia da parte dell’Università, che ha condannato “la violazione del diritto allo studio e di spazi universitari che dovrebbero essere ritenuti sacri”.

Si tratta dell’ennesimo abuso, se si pensa che sono già 80 gli studenti della Bir Zeit e centinaia gli studenti delle altre Università rinchiusi nelle carceri israeliane per proteste contro l’occupazione, e che di questi, 25 sono stati arrestati solo da ottobre. Secondo l’Università di Bir Zeit, questo è un evidente tentativo di “distruggere la volontà del popolo palestinese”, che richiede la massima solidarietà da parte di tutte le organizzazioni internazionali e per i diritti umani. Tali misure repressive non potranno che rafforzare “l’impegno della comunità universitaria per una causa nobile come quella dell’istruzione”.

Vedi:

http://www.birzeit.edu/news/birzeit-university-condemns-israeli%E2%80%99s-constant-violations-right-education

 

II – Effetti collaterali delle “esercitazioni militari” israeliane

Mercoledì 13 gennaio, le forze di occupazione israeliane hanno distrutto i terreni coltivati e fatto irruzione nelle case sulle colline di Masafer Yatta, a Sud di Hebron, con il pretesto di esercitazioni militari. Secondo il Coordinatore del Comitato Popolare contro il Muro e gli Insediamenti, Ratib Al-Jabour, sono state colpite con particolare durezza le comunità di Jinba, Mirkez e Halaweh.

Dispiegati per la presunta esercitazione, centinaia di soldati hanno occupato i terreni antistanti la vicina base militare israeliana, piantando tende, scavando trincee e scaricando equipaggiamento militare. La libertà di movimento delle comunità è stata impedita, le colture invernali sono state danneggiate e i pastori sono stati cacciati con le loro greggi. I palestinesi di questa zona, molto numerosi prima dell’occupazione del 1967, sono sotto continua minaccia di espulsione, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA). In tutto sono 14 le comunità che vivono in una zona dichiarata da Israele “zona militare chiusa” per esercitazioni ormai dagli anni ’80. Il suo nome, per l’esattezza, è diventato “Zona di fuoco 918”.

Come conseguenza, queste comunità hanno vista minata la propria sicurezza fisica, abbassati gli standard di vita, aumentate povertà e dipendenza dagli aiuti umanitari.

Secondo l’OCHA, le famiglie di altre due comunità di quest’area– Al-Kharoubeh e Khirbet Sarura – sono già state costrette a trasferirsi a causa delle attività e della violenza dei coloni. Come molte altre comunità dell’Area C, che è sotto il controllo militare e amministrativo israeliano, i palestinesi di Masafer Yatta sono particolarmente vulnerabili e insicuri dal punto di vista del cibo a disposizione:

“Vivono dei loro animali da allevamento, soprattutto pecore e capre, che sono anche la prima fonte di guadagno. Alcune famiglie non riescono a far sopravvivere il bestiame perché l’accesso alle aree da pascolo è impedito dalla violenza dei coloni o dai militari, ed hanno per questo ridotto il proprio reddito, aumentando il livello di povertà. Così, tutte le comunità della ‘Zona di fuoco 918’ per il proprio sostentamento dipendono dalle organizzazioni umanitarie”.

Vedi:

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=XGS2LNa28954229766aXGS2LN

III- Solidarietà palestinese contro l’occupazione

Se nelle strade scendono i giovani, anche il resto della società palestinese, con modalità diverse, protesta contro l’occupazione israeliana e si attrezza per resistere, pacificamente. È il caso del sindacato dei lavoratori pubblici, che pochi giorni fa ha annunciato che non solo i propri membri, ma tutti i lavoratori pubblici doneranno l’1% dello stipendio a favore delle famiglie che hanno subito la demolizione della propria casa. Una pratica, quella delle demolizioni, rilanciata a metà ottobre da Benjamin Netanyahu: una punizione collettiva, o meglio una vendetta di Stato, sempre più frequente e applicata indiscriminatamente, in violazione del diritto internazionale, contro intere famiglie colpevoli di essere imparentate con qualche “sospetto”. Una strategia criticata dallo stesso comitato militare israeliano, che ha spiegato come le demolizioni non servano da deterrente per nessun attacco.

Il presidente del sindacato palestinese si è invece detto ottimista sui possibili risultati dell’iniziativa di solidarietà: si potrebbe arrivare a raccogliere 16 milioni di sheqel (quasi 4 milioni di euro). E se gli altri sindacati faranno altrettanto, si arriverà a 90 milioni di sheqel (più di 20 milioni). Un ammontare consistente che permetterebbe di ricostruire le case demolite entro sei mesi, secondo il sindacato che, da parte sua, si preoccuperà di girare il denaro a un comitato governativo, coinvolgendo così anche l’Autorità Nazionale Palestinese.

Vedi:

https://www.maannews.com/Content.aspx?id=769757

IV – Tombe cristiane profanate

Nuovo atto vandalico anti-cristiano in Israele. Il fatto risale alla metà di dicembre ma solo adesso è stato reso noto dal Patriarcato latino di Gerusalemme. Alcuni sconosciuti hanno profanato il piccolo cimitero del monastero salesiano di Beit Gémal, nella città israeliana di Beit Shemesh a ovest di Gerusalemme, colpendo e buttando a terra le croci di legno e cemento di alcune tombe. Non ci sono state rivendicazioni e la polizia della città ha aperto un’indagine. Un fatto del genere, denunciato dai Salesiani, era già accaduto nel settembre del 1981. Anche quella volta a farne le spese erano state una trentina di croci di legno. Più recentemente, nel marzo del 2014, la devastazione è stata perpetrata ai danni del monastero di Deir Rafat – dove si trova il santuario della Madonna della Palestina – sempre nei pressi di Beit Shemesh. In quell’occasione furono rinvenute scritte ingiuriose, contro gli Usa e contro i cristiani, che recavano il marchio di un gruppo estremista ebraico denominato “Il prezzo da pagare”: nel suo mirino, la convivenza tra le tre religioni monoteistiche presenti in Israele e nei territori occupati e controllati da Israele. Una convivenza di cui nei mesi scorsi si è fatto strenuo oppositore il rabbino Benzi Gopstein, colono a capo di un altro gruppo estremista denominato “Lehava”, che ha salutato con favore l’incendio di chiese cristiane e non ha esitato a definire i cristiani “vampiri succhia-sangue” che dovrebbero essere espulsi da Israele.

Vedi:

http://en.lpj.org/2016/01/09/desecration-in-a-cemetery-at-beit-jimal/

http://agensir.it/quotidiano/2016/1/8/israele-profanato-cimitero-cristiano-a-beit-shemesh/

http://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.693132

http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/middleeast/israel/11786802/Burning-of-Christian-churches-in-Israel-justified-far-Right-Jewish-leader-says.html

V – I ragazzi di Hares

La storia dei 5 ragazzi di Hares sembra un film, o un brutto incubo. E’ il 14 marzo del 2013 quando una macchina di coloni percorre la strada n. 5 vicino ad Hares, in Cisgiordania. A bordo ci sono una madre e tre figlie. A un certo punto si schianta contro un camion fermo e una figlia si ferisce gravemente, morendo due anni dopo per subentrate complicazioni, secondo fonti israeliane. La mattina dopo l’incidente, 50 soldati fanno irruzione nelle case del villaggio di Hares: sfondano porte, devastano case, interrogano famiglie, cercano figli. E’ ancora buio quando vengono arrestati 10 ragazzi, che vengono bendati e condotti in un luogo segreto senza informare le famiglie del perché. Due giorni dopo parte un’altra ondata di arresti: sono le 3 del mattino e l’esercito fa irruzione accompagnato dallo Shabak (o Shin Bet, i servizi segreti israeliani per la sicurezza interna). Portano via altri 3 ragazzi. Ad uno di loro dicono: “Bacia e abbraccia tua madre perché non la rivedrai mai più”. Ma non è finita: una settimana dopo l’esercito irrompe di nuovo ad Hares e prende molti ragazzi e bambini appena tornati da scuola. Fra di loro c’è anche un piccolino di 6 anni. Lo zio di quest’ultimo insiste perché liberino subito i più piccoli, i militari rilasciano i bambini e scelgono a caso dei ragazzi che bendano, ammanettano e portano via, sempre senza formalizzare le accuse. In totale vengono arrestati 19 ragazzi, ma dopo gli interrogatori ne vengono trattenuti 5 tra i 16 e ei 17 anni, che sono trasferiti a Megiddo, una prigione israeliana per adulti. Questi 5 ragazzi – Ali Shamlawi, Mohammed Kleib, Mohammed Suleiman, Ammar Souf e Tamer Souf sono “i ragazzi di Hares”. Tutti i ragazzi arrestati – accusati di aver lanciato sassi e di aver così fatto sbandare la macchina – hanno poi parlato ai propri avvocati di maltrattamenti, interrogatori violenti e celle d’isolamento con luci sempre accese. I 5 rimasti dentro negano di aver commesso il fatto ma ammettono di aver confessato sotto tortura. Quest’incidente è stato fatto passare dai media israeliani come un atto terroristico. Dopo l’arresto dei 5, Netanyahu ha dichiarato: “i terroristi sono stati catturati”. Per loro, 20 capi di imputazione, uno per ogni pietra che avrebbero lanciato.

Poco prima di Natale, dopo due anni e mezzo di carcere, “i ragazzi di Hares” sono stati condannati a 15 anni di prigione e 30.000 sheqel (circa 7.000 euro) di multa. Una multa che se non sarà pagata entro il 28 gennaio 2016 potrebbe portare ad un considerevole aumento della pena carceraria, anche oltre i 25 anni. Per questo, la campagna internazionale per la liberazione dei ragazzi si sta ultimamente concentrando su una raccolta fondi.

Vedi:

https://www.maannews.com/Content.aspx?id=769421

http://www.huffingtonpost.com/elischia-fludd/hares-boys-anniversary_b_4971764.html

https://haresboys.wordpress.com/

http://palsolidarity.org/2015/12/five-palestinian-teens-blackmailed-into-accepting-15-years-prison-term-and-exorbitant-fines-for-a-crime-that-never-happened/