Newsletter No 26 – 23/5/2016

“Ogni volta che ci rivolgiamo al Consiglio di Sicurezza veniamo sgridati da un membro del Consiglio che ci dice che non è ‘il momento giusto’ o ‘il luogo adatto’“

Riyad Mansour, Ambasciatore della Palestina presso l’ONU

Indice:

  1. Marwan Barghouti candidato al Premio Nobel per la Pace
  2. Negoziati e internazionalizzazione
  3. Nuovi toni USA
  4. Apre il Museo Palestinese di Bir Zeit
  5. La commemorazione della Nakba in ambasciata

I – Marwan Barghouti candidato al Premio Nobel per la Pace

Lo scorso 17 aprile, il Parlamento Arabo composto da parlamentari di tutto il mondo arabo, ha deciso di candidare ufficialmente al Premio Nobel per la Pace 2016 Marwan Barghouti, il leader di Al-Fatah detenuto nelle carcere israeliane in nome del quale – dalla cella di Nelson Mandela in Sudafrica – è stata lanciata la campagna per la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi.

Nella nomina fatta pervenire al Comitato per l’assegnazione del Premio, il Presidente del Parlamento, Ahmed Al Jarwan, ha motivato questa scelta con la convinzione che “il grande   combattente per la libertà Marwan Barghouti rappresenta un simbolo di giustizia per la questione palestinese e la lotta del popolo palestinese”.

La lettera al Comitato ricorda anche che Barghouti ha già trascorso 22 anni in carcere e 7 in esilio, oltre ad essere stato oggetto di svariati tentativi di omicidio a causa del suo impegno – dispiegato in un arco di tempo di più di 40 anni – per la causa della libertà e per il riconoscimento di uno Stato palestinese, in linea con le risoluzioni internazionali.

In sostanza, secondo il Parlamento Arabo “Il riconoscimento del Premio Nobel per la Pace a Marwan Barghouti rappresenterebbe un importante messaggio di sostegno e riconoscimento della lotta palestinese per porre fine all’occupazione sulla base della soluzione dei ‘due Stati’ e garantire alla regione una pace giusta e duratura”.

La campagna per la nomina di Barghouti è stata lanciata intorno alla metà di marzo da molte organizzazioni palestinesi, tra cui la Commissione del PLO per i Prigionieri, il Club dei Prigionieri Palestinesi e il Consiglio Legislativo Palestinese. Ai primi di aprile, Fadwa Barghouti, moglie di Marwan e attivista per i diritti umani, è stata invitata a Tunisi per una cerimonia molto partecipata nel corso della quale Fadhel Moussa, capo della Lega Tunisina per la Difesa dei Diritti dell’Uomo, ha voluto simbolicamente passare a Marwan il Premio Nobel per la Pace vinto l’anno scorso dal Quartetto per il Dialogo Nazionale Tunisino.  Di ritorno dal viaggio, Fadwa ha commentato che si trattava di una decisione importante “perché afferma che il popolo palestinese ha il diritto di liberarsi dall’ occupazione israeliana (…) Israele definisce Barghouti e gli altri prigionieri come terroristi; questa candidatura dice tutt’altro”. Questo invece il commento di Issa Qaraqe, capo della Commissione del PLO per i Prigionieri: “Non importa se Marwan vincerà o meno il premio, il fattore cruciale di questa vicenda è l’alto valore legale e simbolico di questa candidatura”.

Vedi:

https://www.middleeastmonitor.com/20160406-nobel-peace-prize-winners-send-award-to-marwan-barghouti/

II – Negoziati e internazionalizzazione

Si parla molto di negoziati falliti tra i palestinesi e gli israeliani; e da più parti – non solo quella palestinese, ma mai quella israeliana – si ipotizza di rimettere la soluzione del conflitto nelle mani della comunità internazionale. Possibilmente attraverso una Conferenza come quella proposta recentemente dalla Francia. Come si è giunti a questa conclusione?

Nel 1993, l’OLP ha riaffermato uno storico compromesso riconoscendo, con gli Accordi di Oslo, lo Stato di Israele. A ciò seguì un processo di negoziati volti a stabilire, una volta per tutte ed entro il 1999, questioni ancora irrisolte come quelle relative ai confini, a Gerusalemme e ai rifugiati. Tuttavia, questi negoziati fallirono, per il semplice motivo che Israele rifiutava di accettare i principi base del diritto internazionale e i diritti del popolo palestinese. Tant’è che, ad oggi, i palestinesi della Cisgiordania compresa Gerusalemme Est sono ancora sotto occupazione militare e coloniale; quelli della Striscia di Gaza vivono sotto assedio; e il periodo “provvisorio” di 5 anni ne è già durati 23 di anni.

Il processo bilaterale tra una forza occupante e un popolo che vive sotto occupazione si è rivelato una formula fallimentare. La comunità internazionale deve assumersi la responsabilità di un meccanismo che faccia rispettare a Israele il diritto internazionale o lo faccia rispondere delle proprie azioni. Cosa che sin qui – con i negoziati bilaterali sponsorizzati dagli Stati Uniti – non è mai avvenuta.

La leadership palestinese non è contraria ai negoziati in generale. I negoziati sono indubbiamente necessari per raggiungere un accordo sullo “status” finale e definire le future relazioni tra israeliani e palestinesi, tuttavia, Israele ha usato i negoziati come cortina fumogena per continuare a colonizzare la Palestina attraverso gli insediamenti.  La Palestina non può accettare alcuna proposta che legittimi l’occupazione della sua terra da parte di Israele.

Affinché un negoziato abbia successo, è fondamentale stabilire dei limiti di tempo entro i quali far rispettare il diritto internazionale e le risoluzioni Onu, attraverso il costante monitoraggio del Consiglio di Sicurezza che agisce per conto della comunità internazionale.

Ovviamente, gli accordi temporanei sottoscritti in precedenza dovrebbero essere resi immediatamente effettivi, per creare il clima di fiducia necessario al raggiungimento dell’accordo definitivo. Ciò include la liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti prima della firma degli Accordi di Oslo, la completa cessazione delle attività degli insediamenti, il trasferimento dell’area C della Cisgiordania sotto il controllo e la giurisdizione palestinese, e l’impegno di Israele verso il riconoscimento di uno Stato palestinese sovrano e indipendente sui confini del 1967.

Vedi:

http://nad-plo.org/userfiles/file/FAQ/QandA_April2016.pdf

III – Nuovi toni USA                                                               

Sembra che gli Stati Uniti si stiano allineando sulle posizioni degli altri membri del Quartetto (Unione Europea, Russia e Nazioni Unite) anziché cercare di mitigarne i toni quando si tratta di individuare le responsabilità per il fallimento di una soluzione pacifica in Medioriente.  Washington non avrebbe infatti nulla da obiettare su un Rapporto internazionale che concentra la sua attenzione sugli insediamenti, le demolizioni e la confisca di terra da parte di Israele ai danni dei cittadini palestinesi. Secondo le stesse fonti diplomatiche, questo Rapporto, benché prettamente simbolico, potrebbe essere presentato presso la sede delle Nazioni Unite cercando l’approvazione del Consiglio di Sicurezza. Per questo, il documento non citerà solo le attività degli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, ma anche “la tendenza problematica” per cui Israele sta legalizzando piccoli cosiddetti “avamposti”, senza smettere di approvare un numero sempre maggiore di unità abitative.

Nel 1972 i coloni erano circa 10.000, di cui 1.550 vivevano in Cisgiordania e il resto a Gerusalemme Est. Vent’anni dopo, ai tempi degli Accordi di Oslo, i coloni residenti nei Territori Occupati erano diventati 231.000, arrivando a 365.000 nel 2000, quando cominciò la seconda intifada (rivolta) palestinese, e a 474.000 quando Benjamin Netanyahu fu rieletto Primo Ministro nel 2009. Oggi, secondo l’organizzazione israeliana Peace Now, i coloni sono circa 570.000, distribuiti tra la Cisgiordania (370.000) e Gerusalemme Est (200.000), in insediamenti che variano da casette sparse su una collina a vere e proprie città dotate di centri commerciali, scuole e periferie.

Il Quartetto al completo si sta finalmente accorgendo di tutto questo? Creato nel 2002 con l’obiettivo di guidare le due parti verso la pace, questo organismo è stato sin qui irrilevante. Il nuovo Rapporto, che dovrebbe essere reso pubblico tra la fine di maggio e i primi di giugno, si colloca in un momento di generale fermento internazionale sulla questione palestinese, che vede la possibile convocazione di un Conferenza internazionale su iniziativa francese.

Vedi:

http://www.haaretz.com/israel-news/1.718377

IV – Apre il Museo Palestinese di Bir Zeit

L’idea del museo palestinese è nata nel 1997, quattro anni dopo la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese, nell’euforia successiva alla firma degli accordi di Oslo, gli stessi che avrebbero dovuto garantire la fine del conflitto con Israele e la creazione, nel 1999, di uno Stato palestinese.

Così, mentre i palestinesi commemoravano i cinquant’anni della “Catastrofe” che ha rappresentato per loro la creazione d’Israele, nel 1948, la fondazione Taawon, un’associazione senza scopi di lucro, ha deciso di dedicarsi alla creazione del museo. Una struttura che non a caso è stata inaugurata tre giorni dopo il 68esimo anniversario della Nakba.

Il Museo Palestinese è costato 28 milioni di dollari ed è costruito su 4 ettari di terra appartenenti all’Università di Bir Zeit, uno dei partner principali del progetto. L’edificio in pietra e vetro, disegnato dallo studio irlandese Heneghan Peng, si inserisce nel paesaggio a terrazzamenti con percorsi pedonali che si snodano in giardini con piante d’olivo. Il finanziamento è giunto dall’associazione “Taawon-Welfare”. Tafida Jirbawi, Direttrice di Taawon, spiega che «l’intero complesso nasce dalla terra, viene fuori dell’utero della nostra terra, creando un legame indissolubile con la natura, l’ambiente, la gente di Palestina».

Se Edward Said, uno dei più grandi intellettuali palestinesi, trent’anni fa notava come la narrazione palestinese non sia mai stata ammessa nella storia ufficiale di Israele, il museo a Bir Zeit lancia un segnale sulla volontà dei palestinesi di riaffermare la propria esistenza, guardando, allo stesso tempo, al mondo.

Uno degli obiettivi è quello di creare rapporti stabili con le più prestigiose istituzioni culturali internazionali, di accogliere mostre ed eventi di ampio respiro nonché di “esportare” collezioni palestinesi ovunque grazie a sistema multi­disciplinare all’avanguardia. La mostra inaugurale “Never Part”, in programma ad ottobre, include interviste ai palestinesi, anche della diaspora, sugli oggetti personali che conservano gelosamente: 280 oggetti e testimonianze che offrono una miscellanea di interpretazioni alternative della storia collettiva della Palestina.

Le restrizioni che tormentano i palestinesi sotto occupazione israeliana sono state la spinta per la strategia di fondo che anima il Museo Palestinese. “Se geograficamente noi palestinesi siamo dispersi, divisi e impossibilitati a muoverci nella nostra terra”, spiega il presidente Omar Al-Qattan,  “se la maggior parte di noi non ha accesso alla nostra capitale Gerusalemme e se Israele non è mai stato così potente, cosa possiamo fare per sovvertire e superare queste sfide? La risposta è arrivata sotto forma di una ‘nave-madre’ culturale, questo museo che collega le comunità palestinesi qui e nel resto del globo e consente la condivisione del programma del museo tramite una piattaforma online”. L’istituzione culturale si concepisce come una presenza variegata, capace di andare incontro ai palestinesi locali e a quelli della diaspora: dai campi profughi in Giordania e in Libano fino agli emigrati in Cile e negli Stati Uniti. “L’idea di un museo transnazionale”, insiste Al-Qattan è una risposta alle sfide poste dalla situazione politica.

In quest’ottica, il Museo Palestinese collabora alla digitalizzazione di più di mezzo milione di foto e documenti audio di eccezionale importanza storica in possesso dell’UNRWA, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi: dai primi anni subito dopo la Nakba all’invasione israeliana del Libano del 1982, fino alle rivolte (Intifada) del 1987 e del 2000 e a quella dei giorni nostri. Lo scopo è quello di realizzare un archivio nazionale della memoria palestinese accessibile a tutti online.

Vedi:

http://ilmanifesto.info/apre-a-bir-zeit-il-museo-della-palestina/

http://nena-news.it/palestina-a-birzeit-il-primo-grande-museo-realizzato-sotto-occupazione/

http://www.terrasanta.net/tsx/lang/it/p9254/Inaugurato-a-Birzeit-il-Museo-palestinese

 

V – La commemorazione della Nakba in ambasciata

Sabato 21 maggio, l’ambasciata di Palestina in Italia ha ospitato la commemorazione della Nakba, la   Catastrofe del 1948. In una ricorrenza così dolorosa, che ha visto momenti di profonda commozione, si è comunque riusciti a creare un’atmosfera di condivisione molto partecipata, che con balli e canti della resistenza ha ricordato la cultura, le tradizioni e lo spirito di lotta del popolo palestinese. Tra gli invitati – provenienti da molti diversi Paesi – vi erano rappresentanti della Presidenza del Consiglio e del Ministero degli Esteri italiano, parlamentari, politici e l’organizzazione sindacale CGIL; ambasciate dei Paesi arabi e non; organizzazioni della società civile; amiche e amici della Palestina.

All’intervento dell’Ambasciatrice Mai Alkaila, che con le sue parole ha dimostrato come la Nakba continui nell’attualità del popolo palestinese, sono seguiti quello di Mons. Hilarion Capucci, Vescovo di Gerusalemme; di Vincenzo Vita, già Senatore e Presidente dell’Associazione Amicizia Italia-Palestina; dell’Ambasciatore del Marocco nonché Decano degli Ambasciatori Arabi in Italia, Hassan Abu Ayoub; di Salam Ashour, Presidente della Comunità Palestinese di Roma e Lazio; e di Fabio Alberti, per Sinistra Italiana.