Gaza

Gaza: occupazione tramite assedio

La popolazione di Gaza vive in una prigione a cielo aperto: oltre all’assedio, al blocco e al furto di terra, i gazawi subiscono anche il furto del mare.

Un recente Rapporto sulla “Crisi umanitaria a Gaza”, approvato il 24 gennaio 2017 dal Consiglio d’Europa, denuncia il deteriorarsi della situazione umanitaria nella Striscia: 75.000 persone ancora sfollate che si appoggiano da parenti, una disoccupazione al 43% che arriva al 65% tra i giovani, i quali non possono cercare lavoro fuori dalla Striscia. E se quasi il 40% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, l’80% di essa si affida all’assistenza umanitaria.

L’assedio israeliano non distrugge solo le strutture economiche e politiche di Gaza, ne lacera in questo modo anche il tessuto sociale.

Per il Commissario generale dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (UNRWA), Pierre Krähenbühl, “non si può creare stabilità o sicurezza dove ci sono il 65% di giovani disoccupati”. Quello che si crea “è solo altra frustrazione e altro scontento”. I giovani palestinesi che escono dalle scuole di Gaza “sono qualificati e motivati ma non troveranno un lavoro”. La percentuale di disoccupazione giovanile nella Striscia “è una delle più alte del mondo” e, anche secondo il Commissario, “si stenta a credere che questi parametri possano essere giustificati da questioni di sicurezza, legittime o meno”.

Parlando in audizione alla commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo, Krähenbühl ha affermato che a Gaza “la fabbrica sociale è stata fatta a pezzi”, e “le persone non hanno prospettive”. Ma queste prospettive non possono cercarle neanche altrove, visto che “il 90% dei 250mila ragazzi che frequentano le nostre scuole non ha mai lasciato la Striscia”, ha sottolineato Krähenbühl, spiegando che nel 2015, su un milione e 800mila abitanti, solo a 10mila persone è stato permesso di uscire da Gaza: questo “significa che in media una persona può aspettarsi di uscire ogni 180 anni”.

La distruzione derivante dalle tre maggiori aggressioni israeliane nel corso degli ultimi nove anni ha causato enormi danni per quanto riguarda l’accesso all’acqua e all’energia, l’igiene e le strutture mediche. Questo, insieme ad una ricostruzione rallentata da un blocco che dura da nove anni e che rappresenta una vera e propria “punizione collettiva”, richiede una soluzione rapida da parte della comunità internazionale.

Con l’operazione militare israeliana del 2014 a Gaza, la situazione è peggiorata drasticamente: sono morte più di 2.250 persone, di cui quasi tutti civili, compresi 551 bambini e 299 donne; più di 11.230 persone sono state ferite; più di 12.620 case sono state completamente distrutte, mentre 6.455 sono state seriamente danneggiate; e il 28% della popolazione di Gaza è stato trasferito.

Il territorio di Gaza non soffre solo di mancanza di energia elettrica e di acqua potabile; secondo il Rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo del 2015, a causa dei danni al bacino acquifero costiero e del generale degrado ecologico, Gaza rischia di diventare invivibile già nel 2020.

La vita quotidiana dei gazawi, sotto assedio permanente, si fa particolarmente dura d’inverno, senza corrente elettrica e riscaldamento. La situazione umanitaria è insostenibile e le prime vittime sono i bambini e gli anziani.

L’insicurezza alimentare colpisce la salute

Come conseguenza del blocco e delle operazioni militari, il 47% delle famiglie di Gaza non ha sufficiente accesso al cibo, e se il cibo è disponibile, per molti è troppo caro a causa dell’altissimo tasso di disoccupazione. Inoltre, anche quando le famiglie riescono a ottenere del cibo, la pessima qualità dell’acqua, lo scarso livello di igiene, la mancanza di energia elettrica e la carenza di fornelli a gas (importati dal valico di Kerem e pari a un terzo del fabbisogno) rendono molto difficile la preparazione del cibo.

A questa insicurezza alimentare, direttamente connessa a una situazione di povertà generale, bisogna aggiungere che la “zona cuscinetto” con Israele copre circa il 23% del terreno agricolo della Striscia, limitando la possibilità di coltivarlo.

Ma ciò che rende la scarsezza di cibo e di ricchezza più devastante a Gaza è il fatto che la principale fonte di cibo e di ricchezza, la pesca, è per lo più proibita a causa del blocco imposto da Israele. La Palestina è una terra con una lunga tradizione marittima. Settanta anni fa la flotta palestinese solcava il Mediterraneo Orientale. Adesso, con le imbarcazioni confinate nei limiti delle 6 miglia marittime, i pescatori riescono a malapena a pescare ciò di cui hanno bisogno per nutrire le loro famiglie.

Secondo B’Tselem, il Centro Israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei Territori Occupati, quasi ogni giorno i pescatori subiscono aggressioni a colpi di arma da fuoco, restando uccisi o feriti. Le barche sono colpite da potenti cannoni ad acqua e spesso confiscate, insieme agli strumenti, loro vengono arrestati, perquisiti inutilmente, umiliati. Non sorprendono, allora, i dati del Dipartimento per la Pesca del Ministero dell’Agricoltura, che mostrano una diminuzione della produzione di pesce durante gli ultimi cinque anni, dalle 3.000 tonnellate del 2008 alle 1.500 di oggi, con 40.000 persone che continuano a dover vivere di questo.

Circa il 33% delle famiglie palestinesi soffre di insicurezza alimentare. Con la scarsezza di risorse arriva la malnutrizione. Prima del blocco di Gaza e della messa a bando dell’acciaio, del cemento e della ghiaia in Cisgiordania, la malnutrizione non era prevalente. Tuttavia, tra il 2000 e il 2010 è cresciuta del 41,3% in Cisgiordania e del 60% a Gaza. Nel 2004, arresto della crescita e malnutrizione colpivano il 9,4% dei bambini sotto ai cinque anni in Cisgiordania e l’11% di quelli a Gaza. Nel giugno del 2014, il 10% dei bambini sotto ai cinque anni soffriva ancora di arresto della crescita e malnutrizione cronica a Gaza.

Malnutrizione e insicurezza alimentare hanno effetti devastanti. La malnutrizione non colpisce solo il presente: dato che produce ritardi nello sviluppo cognitivo e fisico, ha effetti sul futuro dei palestinesi e della Palestina.

Siccome il blocco e le restrizioni impediscono a molti palestinesi di ottenere il cibo e le sostanze nutritive di cui hanno bisogno, in Palestina è aumentata l’anemia. L’anemia è una condizione per cui i globuli rossi non sono sufficienti o non riescono comunque a svolgere la loro funzione di portatori di ossigeno. Ne soffrono soprattutto i bambini e le donne in gravidanza, e comporta stati di affaticamento, sonnolenza e vertigini.  In Palestina, il 50% dei bambini sotto ai due anni soffre di anemia, mentre è il 39,1% delle donne in gravidanza che ne soffre a Gaza, contro il 15,4% in Cisgiordania.  Poiché l’anemia comporta anche maggiore mortalità materna, il blocco causa un aumento della mortalità durante il parto.

Malnutrizione e anemia persistono e i palestinesi devono ricorrere agli aiuti internazionali –come quelli del World Food Programme– per assistere le famiglie, nonostante i tentativi di Israele di bloccare anche questi aiuti.