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Acqua

acqua in palesina

ACQUA

Il consumo pro-capite di acqua per usi domestici in Israele è di 4 o 5 volte superiore a quello della  popolazione palestinese nei Territori Palestinesi Occupati (TPO). Il rapporto tra i consumi dei 600.000 abitanti degli  insediamenti illegali  ed i 2,6 milioni di palestinesi in Cisgiordania arriva addirittura  a 6 volte. La discrepanza è ancora maggiore se si considera il consumo di acqua a scopi agricoli. Tutto ciò è dovuto al fatto che Israele si è impadronita delle principali fonti idriche nonché della rete di distribuzione.

L’acqua presente nella regione – fornita dalle fonti naturali del fiume Giordano, del bacino acquifero montano e di quello costiero, che attengono alla Palestina storica costituita da Gaza, dalla Cisgiordania, dall’attuale Stato di Israele e dalle alture del Golan – non è molta ma è scarsa solo per una parte della popolazione, quella palestinese, cui è negato l’accesso alle fonti quasi completamente, mentre israeliani e coloni ne godono in abbondanza.

Israele esercita illegalmente la sovranità sulle risorse idriche dell’area dal 1967, allorché integrò, attraverso una serie di ordinanze militari tutt’ora vigenti, il sistema idrico dei TPO nel sistema israeliano. La stessa localizzazione delle illegali colonie israeliane nei TPO è decisa strettamente in funzione del controllo delle risorse idriche. L’integrazione si è perfezionata nel 1982 con il trasferimento delle infrastrutture idriche di proprietà palestinese in Cisgiordania alla Compagnia israeliana Mekorot, per il prezzo simbolico di uno scekel (Euro 0,20).

I palestinesi sono costretti ad approvvigionarsi per una buona metà dei propri fabbisogni dalla Mekorot e questa, avendo il controllo esclusivo del sistema integrato, durante i mesi estivi per coprire il fabbisogno delle colonie riduce anche del 50% la quota già attribuita  ai palestinesi in modo totalmente sperequato.

Inoltre, Israele non solo impedisce la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture idriche nell’Area C, che costituisce il 60% della Cisgiordania, ma confisca e distrugge ogni manufatto per il quale manchino i permessi (peraltro quasi sempre negati), anche se realizzato da organizzazioni umanitarie, mentre i coloni non devono richiedere alcun permesso e tutti gli insediamenti illegali nei TPO sono connessi alla rete idrica.

La situazione diventa assolutamente tragica a Gaza, dove le infrastrutture idriche, fognarie e per la depurazione sono state distrutte nel corso delle operazioni militari, e la loro ricostruzione è impossibile perché l’assedio impedisce l’entrata dei materiali necessari. Peraltro il bacino acquifero che alimenta Gaza, essendo sfruttato pure da Israele, è insufficiente al fabbisogno della Striscia e, trovandosi al di sotto del livello del mare, è sottoposto a continue infiltrazioni da parte di reflui ed acqua salina: il risultato è che il 95% dell’acqua non è idoneo al consumo umano.

Il furto dell’acqua rientra nella più ampia strategia israeliana di sottrarre territorio e risorse alla popolazione palestinese per impedirne la permanenza rendendo impossibile lo sviluppo dell’economia ed una qualità della vita minimamente accettabile.  L’iniqua ed illegale gestione delle risorse idriche da parte di Israele attraverso la Mekorot si inquadra nel sistema di Apartheid instaurato da Israele che mira all’espulsione dei palestinesi dalla loro terra. A ragione si può parlare quindi di Apartheid dell’acqua, di cui Mekorot è il braccio operativo.

Nel denunciare questa situazione la Banca Mondiale è stata anticipata da Betselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani nei territori occupati palestinesi, che in uno dei suoi comunicati ha fatto notare che se l’accesso all’acqua senza discriminazioni è sancito dalla legge internazionale come un diritto umano fondamentale, la politica del governo israeliano è evidentemente discriminatoria e lesiva dei diritti umani del popolo palestinese.