Newsletter No 36 – 8/8/2016

“Possano la gioia e i buoni intenti amichevoli regnare, così che la Torcia Olimpica possa perseguire la sua via attraverso le ere, aumentando le comprensioni amichevoli tra le nazioni, per il bene di una umanità sempre più entusiasta, più coraggiosa e più pura”

Pierre de Coubertin

 

Indice:

  1. Una cattiva pratica diventa legge
  2. Lo sciopero della fame diventa di massa
  3. Il Comitato Unesco contro le violazioni ad Al-Aqsa
  4. E’ giusto monitorare il razzismo
  5. Il ritorno degli scout palestinesi
  6. Gli atleti palestinesi arrivano alle olimpiadi senza bandiera

I – Una cattiva pratica diventa legge

Il 28 luglio, l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha pubblicato un Rapporto che rivela come le autorità israeliane abbiano sistematicamente aumentato, da ottobre, l’uso della detenzione “amministrativa”, cioè senza capi d’accusa e senza processo, per i giovani palestinesi minori d’età. Si tratta, secondo B’Tselem, dell’abuso di una pratica già di per sé illegale. Una pratica che colpisce quasi esclusivamente i cittadini palestinesi e che è stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale, anche grazie agli attivisti per i diritti umani che hanno fatto notare come la detenzione amministrativa contribuisca ad annientare la vita politica e sociale dei palestinesi.

La stessa B’Tselem ricorda che, secondo il diritto internazionale, la detenzione amministrativa è consentita “solo in casi eccezionali, come ultima spiaggia per evitare un pericolo che non può essere prevenuto con mezzi meno dannosi”. Una restrizione, questa, che non viene evidentemente rispettata da Israele, come non ne vengono rispettate molte altre, in particolare quando si parla di minori. Israele è infatti l’unico Paese del mondo a processare i ragazzini in tribunali militari – secondo Defence for Children International Palestina (DCIP) – con il 60% dei bambini palestinesi detenuti che vengono regolarmente trasferiti dal territorio palestinese alle prigioni israeliane, in evidente violazione del diritto internazionale. L’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer parla di circa 700 palestinesi sotto ai 18 anni provenienti dalla Cisgiordania processati ogni anno in tribunali militari israeliani, e di più di 12.000 bambini palestinesi detenuti dalle autorità israeliane dall’anno 2000. Nella maggior parte dei casi il loro crimine consiste nell’aver tirato una pietra.

L’86% dei ragazzi in seguito all’arresto è costretto a subire forme di violenza fisica, oltre che psicologica. E alla fine dell’interrogatorio il minorenne è forzato a firmare una “confessione” in ebraico, lingua che solitamente non conosce. Tutto ciò è stato denunciato da diversi Rapporti dell’Unicef e, recentemente, dal Direttore della Comunicazione dell’Ufficio del Primo Ministro Palestinese. Jamal Dajani ha infatti dichiarato che “il trattamento riservato da Israele ai bambini palestinesi costituisce un’aperta violazione dell’Art. 37 della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia (CRC), la quale stabilisce che nessun fanciullo dovrebbe essere soggetto a tortura o a punizioni e trattamenti crudeli, disumani o degradanti”.

Eppure, la notte del 1 agosto il Parlamento israeliano (la Knesset), si è spinto ad approvare una legge che “formalizza” tutto questo, conferendo dignità giuridica all’arresto di ragazzini sotto ai 14 anni accusati di cosiddetti “atti terroristici”.

La “Legge dei giovani” ha subito scatenato dure critiche da parte di B’Tselem. “Piuttosto che incarcerarli – si legge in una nota – Israele farebbe meglio a mandarli a scuola dove potrebbero crescere con dignità e libertà e non sotto occupazione”. “Imprigionare i minorenni – continua la dichiarazione – vuol dire negare loro la possibilità di una vita migliore”. Contro la legge si è schierata anche l’Acri (Associazione per i diritti civili in Israele) che in un rapporto datato 2015 aveva già chiesto a Tel Aviv di non abbassare l’età per finire in carcere.

Il Primo Ministro palestinese, Rami Hamdallah, in una dichiarazione rilasciata il 4 agosto ha osservato: “La legge mostra un totale disprezzo per i diritti dei bambini, quando si tratta di bambini palestinesi. Abbiamo bisogno di più leggi per proteggere i bambini palestinesi, non per criminalizzarli”.

Vedi:

http://www.maannews.com/Content.aspx?id=772418

http://www.unicef.org/oPt/UNICEF_oPt_Children_in_Israeli_Military_Detention_Observations_and_Recommendations_-_6_March_2013.pdf

http://www.unicef.org/oPt/Children_in_Israeli_Military_Detention_-_Observations_and_Recommendations_-_Bulletin_No._2_-_February_2015.pdf

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=qqQrMra37933067568aqqQrMr

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=8EwnD3a38886724074a8EwnD3

http://nena-news.it/israele-la-knesset-approva-prigione-anche-per-i-dodicenni-terroristi/

II – Lo sciopero della fame diventa di massa

Sono oltre 300 i detenuti nelle prigioni israeliane che rifiutano il cibo. Un nuovo sciopero della fame di massa è infatti ufficialmente partito, dopo che nelle scorse settimane molti detenuti si erano già uniti alla prima forma di protesta lanciata per sostenere Bilal Kayed che, arrestato nel 2002, aveva scontato la sua pena a 14 anni e mezzo di carcere quando, al momento del rilascio, è stato posto in detenzione amministrativa: sei mesi di carcere senza processo né accuse. Kayed ha cominciato a scioperare subito, oggi è al 51esimo giorno senza toccare cibo e le sue condizioni di salute si sono gravemente deteriorate.

Israele sa come reagire alla protesta degli stomaci vuoti: secondo la Società dei Prigionieri Palestinesi (PPS), molti prigionieri detenuti a Eshel sono stati trasferiti il 4 agosto nella prigione di Ohalei Kedar, dove le forze israeliane li hanno legati, spogliati e fotografati, mentre si moltiplicano ovunque raid nelle celle e confische di beni personali dei detenuti.

Tutte forme di pressione fisica e psicologica che le autorità carcerarie israeliane usano da decenni per interrompere gli scioperi della fame. Fin dagli anni ’70 il movimento dei prigionieri politici, tra le colonne portanti del movimento di resistenza popolare, organizza ingenti scioperi della fame per ottenere condizioni migliori nelle carceri o per protestare contro forme di detenzione illegali. E la solidarietà dal mondo “esterno” è sempre immediata: in questi giorni si sono tenute molte manifestazioni e sit-in a sostegno dello sciopero della fame. Tra i presidi anche quello del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi, in solidarietà con il giornalista Omar Nazzal, già posto in isolamento come forma punitiva.

Vedi:

http://nena-news.it/bilal-kayed-resta-in-carcere-senza-processo-un-esempio-del-modello-israeliano/

http://www.maannews.com/Content.aspx?id=772515

 

III- Il Comitato Unesco contro le violazioni ad Al-Aqsa

Il Comitato Unesco per il Patrimonio Mondiale avrebbe dovuto approvare il 20 luglio una risoluzione presentata dalla Palestina e dalla Giordania per rinnovare l’inclusione della Città Vecchia di Gerusalemme nella Lista dei Patrimoni Mondiali in Pericolo, che accuserebbe Israele di “cattiva condotta” nel complesso di Al-Aqsa, citando “atti vandalici” e danni ai luoghi sacri per i musulmani.  Si tratta di un documento simile a quello già approvato lo scorso aprile, in cui il Comitato condannava unilateralmente “le aggressioni israeliane e le misure illegali che impediscono la libertà di preghiera e l’accesso dei musulmani ai loro luoghi sacri di Al-Aqsa e del Monte del Tempio”, riferendosi alle “continue incursioni da parte di estremisti israeliani e di uomini in uniforme”. La stessa risoluzione insisteva affinché lo Stato di Israele, definito come “la Forza Occupante”, prendesse “le misure necessarie ad evitare abusi provocatori che violano la santità e l’integrità” del luogo sacro.

L’adozione della nuova risoluzione, che avrebbe dovuto verificarsi ad Istanbul il 20 luglio, è stata rimandata “per motivi di sicurezza legati al tentativo di golpe in Turchia”, sebbene il governo israeliano se ne sia preso i meriti sbandierando il voto mancato come un successo della propria opera di dissuasione presso l’Unesco.

In realtà, come ha spiegato l’Ambasciatore della Palestina presso l’Unesco, Mounir Anastas, le consultazioni fatte sin qui dimostrano che vi è unanimità all’interno del Comitato e in particolare tra i suoi membri europei, perché la risoluzione sia adottata per consenso senza passare nemmeno per il voto. Cosa che probabilmente accadrà nella prossima riunione, prevista per il mese di ottobre a Parigi, nonostante gli strenui sforzi diplomatici e la campagna denigratoria dispiegata da Benjamin Netanyahu.

Vedi:

http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2016/07/unesco-postpone-voting-jerusalem-resolution-palestinian.html

https://www.maannews.com/Content.aspx?id=772179

 

IV– E’ giusto monitorare il razzismo

L’agenzia di stampa palestinese WAFA si occupa, tra le altre cose, del monitoraggio dei media israeliani per ciò che riguarda la loro propensione all’istigazione e al razzismo contro i cittadini arabi e palestinesi. Il 1 agosto è quindi giunto puntuale il 296esimo Rapporto settimanale, che copre il periodo dal 15 al 21 luglio e denuncia il comportamento di una serie di giornalisti e scrittori israeliani.

In particolare, WAFA cita un articolo apertamente razzista pubblicato dal quotidiano Maariv, che se la prende con una parlamentare della Knesset evidentemente in quanto donna e in quanto araba, dandone volutamente un’immagine stereotipata: quella di una 47enne siriana che, se non avesse avuto la fortuna di lasciare il proprio Paese, “avrebbe passato il resto della vita ad occuparsi dei propri figlioletti senzatetto, nati dal matrimonio forzato con un uomo più anziano di lei, che adesso le avrebbe anche imposto la convivenza con una nuova moglie molto più giovane, ovviamente”.

Se ciò non bastasse, l’agenzia ci informa anche di un video, apparso sul sito web di Maariv, NRG, in cui un giornalista israeliano sostiene che “la cultura palestinese promuove le bugie”.

Vedi:

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=HJyvL5a37918791273aHJyvL5

                                           

V – Il ritorno degli scout palestinesi

Il movimento degli scout palestinesi ha fatto un grande ritorno sull’arena araba e internazionale con il rientro dell’Associazione Scout Palestinese (PSA) nell’Organizzazione Mondiale del Movimento Scout (WOSM), lo scorso 27 febbraio, grazie ad una votazione online in cui 162 Paesi hanno decretato la fine di un’assenza durata 68 anni. Nel discorso pronunciato durante la celebrazione di questo evento a Ramallah lo scorso 21 giugno, il Capo del Consiglio Superiore Palestinese per la Gioventù e lo Sport, Jibril Rajoub, ha sottolineato il ruolo che il movimento scout gioca all’interno della lotta per l’autodeterminazione palestinese. Un ruolo politico, quindi, ripreso anche dal Segretario della PSA, Tawfik Salem, che ha spiegato come la rinnovata membership aiuterà i palestinesi a raccogliere il sostegno di milioni di altri membri della WOSM per la loro causa, contribuendo altresì a promuovere, tramite esposizioni, scambi ed accordi di cooperazione, la cultura e il patrimonio artistico palestinese. L’ostacolo principale è rappresentato dall’occupazione, visto che le autorità israeliane controllano i viaggi all’estero degli scout e possono vietare l’organizzazione di campi scout sulle montagne dell’Area C. Ma la PSA è determinata ad andare avanti. Considerato uno dei movimenti scout più antichi del mondo, quello palestinese prese le mosse dalla fondazione della Scuola Scout di San Giorgio, a Gerusalemme, nel 1912. Il riconoscimento internazionale arrivò nel 1928, ciò che permise la partecipazione ai raduni del 1929 a Birkenhead, in Inghilterra, e del 1933 a Budapest. Ci furono poi le persecuzioni da parte del Mandato Britannico durante la Rivoluzione della Palestina del 1936-1939, per arrivare infine all’espulsione dal WOSM nel 1948, come conseguenza della nascita dello Stato di Israele e della Nakba (“catastrofe”) palestinese.

Vedi:

http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2016/07/palestinian-scout-movement-join-world-organization.html

VI – Gli atleti palestinesi arrivano alle olimpiadi senza bandiera

I sei atleti palestinesi che partecipano ai Giochi olimpici di Rio – Simon Yacoub (judo), Christian Zimmermann (dressage), Mohammed Abu Khoussa (100 metri maschile), Mayada Sayyad (maratona  femminile), Ahmed Jibril (200 metri stile libero maschile) e Mary Al-Atrash (50 metri stile libero femminile) – hanno denunciato al loro arrivo in Brasile la totale mancanza, tra i propri bagagli, degli indumenti da gara e da allenamento nonché delle divise per la sfilata della cerimonia e della bandiera da sventolare nel corso della stessa circostanza, perché rimasto tutto bloccato alla dogana di Israele. La responsabile della delegazione palestinese, Ghadya Abu Zayyad, ha lanciato un appello al Comitato Olimpico: “Aiutateci, non sappiamo cosa fare, gli atleti hanno solo un paio di magliette a testa per allenarsi e l’uniforme da podio, nient’altro. Se le cose non cambiano, saranno costretti a cucirsi da soli una bandiera per la cerimonia d’apertura e a comprarsi divise improvvisate. Speriamo che il Cio ci risponda, non possiamo fare altro”.

Vedi:

http://www.repubblica.it/sport/2016/08/01/foto/rio_appello_atleti_palestinesi_ferme_in_israele_divise_e_bandiere-145165556/1/?ref=HRESS-7#1

http://www.lantidiplomatico.it/dettnewsolimpiadi_di_rio_2016_israele_continua_ad_impedire_linvio_delle_uniformi_per_gli_atleti_palestinesi/82_16800/