Newsletter No 52 – 9/1/2017

“La data fissata è il 15 gennaio e i Paesi invitati sono 70. Non ci tireremo indietro proprio adesso”

Jean-Marc Ayrault, Ministro degli Esteri della Francia

Indice:

  1. In arrivo la Conferenza Internazionale per la Pace
  2. Per un soldato israeliano che viene condannato
  3. Il sistema dei permessi divide le famiglie
  4. Le critiche dell’Arcivescovo alle politiche di Israele

I – In arrivo la Conferenza Internazionale di Pace

In vista della Conferenza Internazionale per la Pace voluta dalla Francia per dirimere il conflitto israelo-palestinese e prevista a Parigi per il 15 gennaio, Hanan Ashrawi, Membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, ha dichiarato che la Conferenza deve “proporre obiettivi chiari e un piano concreto per realizzarli entro limiti di tempo vincolanti”.

Durante l’incontro dell’8 gennaio con il Console francese Pierre Cochard presso la sede dell’OLP a Ramallah, Ashrawi ha sottolineato che per avere successo la Conferenza dovrà basarsi sul diritto internazionale, e in particolare sul diritto umanitario e le risoluzioni ONU, con speciale riferimento alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2334, che ha recentemente condannato gli insediamenti israeliani in Palestina. Conseguentemente, “la Conferenza dovrà predisporre dei meccanismi in grado di porre termine all’occupazione militare israeliana e di assicurare la creazione di uno Stato palestinese sovrano sui confini del 1967 con capitale Gerusalemme Est”. Senza dimenticare nessuna delle questioni relative allo status permanente delineate in diverse convenzioni internazionali e in risoluzioni ONU come la 194 dell’Assemblea Generale, che già nel 1948 prevedeva il ritorno dei palestinesi alla loro terra.

Per fare tutto questo, Ashrawi propone che all’indomani della Conferenza un’apposita commissione si occupi di monitorare e valutare le azioni intraprese, intervenendo laddove ci sia bisogno di individuare mancanze e responsabilità.

Secondo la rappresentante dell’OLP, la Conferenza è resa ancor più importante dall’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti e da ciò che la nuova amministrazione USA sembra paventare con dichiarazioni che puntano alla legittimazione degli insediamenti israeliani e allo spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Mosse che, a detta di Ashrawi, avrebbero “conseguenze enormi e potrebbero travolgere l’intera regione, andando anche oltre”.

Vedi:

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=5V8638a52038998781a5V8638

II – Per un soldato israeliano che viene condannato

Il 4 gennaio un tribunale militare di Tel Aviv ha dichiarato colpevole di omicidio un soldato israeliano che ha ucciso a sangue freddo un ragazzo palestinese ferito a Hebron. La corte ha stabilito che Elor Azaria – che ha sparato ad Abdul Fattah Al-Sharif lo scorso 24 marzo mentre quest’ultimo giaceva al suolo ferito dalle forze di occupazione israeliane in seguito ad una sua presunta aggressione – ha agito mosso da spirito di vendetta (sostenendo apertamente che il palestinese meritasse la morte, secondo alcune testimonianze) e non perché il ragazzo ucciso costituisse una reale minaccia (come dichiarato poi dal suo assassino).

Si tratta di una prova inconfutabile dei crimini di guerra commessi da Israele e quella della condanna sarebbe una bella notizia, considerando che sono eccezionalmente bassi i procedimenti nei confronti dei militari responsabili di violenze contro i palestinesi; se non fosse che, a partire dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, quasi tutto lo schieramento politico israeliano (compresa l’opposizione laburista) e buona parte dell’opinione pubblica (compresi non pochi artisti) hanno aspramente contestato la sentenza e sperano ancora di sovvertirla.

Il Ministro degli Esteri della Palestina, Riad Malki, ha parlato di processo-farsa, pensato solo per “assorbire” la condanna internazionale di un’azione resa obiettivamente odiosa dalle riprese effettuate da una telecamera. Di fatto, secondo Malki, non dovrebbe essere processato solo Azaria, ma un intero regime come quello israeliano che permette l’uccisione dei cittadini palestinesi.

Sulla stessa linea del ministro palestinese, la Lista Araba Unita, terzo partito del parlamento israeliano con i suoi 13 membri, ha commentato che le richieste di perdono per il killer di Al-Sharif saranno interpretate dai soldati israeliani come una licenza d’uccidere i palestinesi, e ha segnalato che quando si tratta della vita, della dignità, della proprietà e della terra palestinese, le forze politiche israeliane apparentemente più lontane tra loro improvvisamente si ricompattano.

Vedi:

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=Bnne7ma52005687426aBnne7m

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=cr5GeUa52006639179acr5GeU

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=mETxKoa52015204956amETxKo

III – Il sistema dei permessi divide le famiglie

Una donna palestinese, madre di 4 figli, il 19 dicembre si è consegnata alle autorità israeliane per servire 7 mesi di prigione in seguito a una condanna che dichiara “illegale” la sua permanenza a Gerusalemme.

Shifa Al-Shaludi Ubeido, 37 anni e originaria di Hebron, ha una carta d’identità della Cisgiordania ed ha vissuto per 18 anni a Silwan, nella Gerusalemme Est Occupata, con il marito e i figli, in virtù del loro “ricongiungimento familiare”. I problemi della famiglia sono sorti quando i genitori si sono separati perché a quel punto Al-Shaludi, rimasta con i 4 figli, si è vista revocare il permesso di residenza ed ha subito, già nell’ottobre del 2015, un’irruzione in casa delle forze armate israeliane conclusasi con un primo arresto suo e di un figlio. Adesso, dopo aver trascorso 40 giorni in carcere e 11 mesi agli arresti domiciliari, Al-Shaludi viene considerata un pericolo pubblico e “per motivi di sicurezza” non può riavvicinarsi a Gerusalemme. D’altra parte, questa di brandire i motivi di sicurezza per impedire ai cittadini palestinesi di entrare a Gerusalemme è una prassi consolidata che colpisce indistintamente i 3,5 milioni di palestinesi che risiedono in Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza e che sono costretti a chiedere un permesso per entrare a Gerusalemme e in Israele.

Le riunificazione familiari sono divenute più difficili dopo l’introduzione, nel 2003, di una misura “d’emergenza” correttiva della legge che consentiva automaticamente uno status giuridico a chi sposasse un cittadino israeliano o residente in Israele. La Ong palestinese Badil denuncia un sistema di permessi che in questo modo colpisce soprattutto le famiglie, attribuendo a ciascun membro un tipo di residenza non necessariamente compatibile con quella degli altri, secondo “distinzioni assolutamente arbitrarie”.

Se tutto ciò non bastasse, al problema dei permessi di residenza si aggiunge quello dei permessi di abitare le case di Gerusalemme Est, perché i permessi per costruire non vengono praticamente mai concessi, mentre “scadono” quelli di affitto concessi tra il 1948 e il 1967, come recentemente decretato dalla Corte Suprema Israeliana, che per questo motivo ha stabilito di allontanare i figli di Nora Ghaith e di  Mustafa Sub Laban dalla casa dei genitori.

Vedi:

https://www.maannews.com/Content.aspx?id=774518

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=L4D9ECa51900994596aL4D9EC

IV – Le critiche dell’Arcivescovo alle politiche di Israele        

L’Arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, Amministratore apostolico della sede vacante del Patriarcato latino di Gerusalemme, ha manifestato la propria contrarietà al progetto sostenuto dal governo israeliano di impedire l’Adhan – la chiamata alla preghiera islamica – recitata dal muezzin dai minareti delle moschee cinque volte al giorno.

 “Io credo che si tratti di un precedente pericoloso” ha dichiarato l’Arcivescovo Pizzaballa in occasione della conferenza stampa pre-natalizia tenutasi lunedì 19 dicembre presso la sede del Patriarcato latino di Gerusalemme. “Mi auguro che questo progetto di legge non vada avanti. Ci sono altri modi per risolvere il problema dell’inquinamento acustico”, ha sentenziato.

Il nuovo disegno di legge israeliano, approvato dalla Commissione ministeriale per la legislazione a metà novembre e ora al vaglio del Parlamento di Tel Aviv, è stato infatti motivato dalla necessità di proteggere i cittadini israeliani dai “rumori” dovuti agli altoparlanti posti in cima ai minareti, ma rappresenta in realtà una provocazione che rischia di “far sprofondare la regione in un baratro”, come ha subito dichiarato il Presidente Abu Mazen.

Durante la stessa conferenza stampa di dicembre, l’Arcivescovo Pizzaballa ha voluto ricordare anche la scandalosa vicenda della Valle del Cremisan, dove il Muro dell’Apartheid imposto dal governo di Tel Aviv è stato costruito “nonostante i nostri molteplici appelli alle autorità israeliane”. L’esproprio delle terre delle famiglie cristiane realizzato per costruire il muro – ha aggiunto l’Arcivescovo – “rappresenta un sequestro della loro eredità”.

Custode di Terra santa per 12 anni consecutivi, Papa Francesco aveva affidato a lui l’incarico di organizzare il suo incontro di preghiera con l’allora Presidente d’Israele Shimon Peres e il Presidente dello Stato di Palestina Abu Mazen alla presenza del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, svoltosi l’8 giugno del 2014.

Pizzaballa ha sempre dichiarato di essere disponibile al dialogo con tutte le forze presenti nel territorio al fine di garantire la presenza della comunità cristiana in Terra Santa, che più volte ha sostenuto di vedere “in pericolo”.

Vedi:

http://www.interris.it/2016/12/22/109257/cronache/religioni/gerusalemme-pizzaballa-la-legge-per-silenziare-le-moschee-rappresenta-un-precedente-pericoloso.html