Newsletter No 61 – 20/3/2017

“La questione che lo Stato di Israele abbia stabilito un regime di Apartheid deriva dallo stesso insieme di principi e leggi umanitarie che rifiutano l’antisemitismo: il diritto internazionale che proibisce la discriminazione razziale”

La Commissione Sociale ed Economica dell’Onu per l’Asia Occidentale

Indice:

  1. La Commissione Sociale ed Economica dell’Onu per l’Asia Occidentale condanna l’Apartheid ed è subito censura
  2. La colonizzazione delle risorse naturali a volte non si vede ma c’è
  3. L’interrogazione parlamentare di Sinistra Italiana ricorda gli impegni del Governo italiano
  4. Se a Gaza si producono kippah

I – La Commissione Sociale ed Economica dell’Onu per l’Asia Occidentale condanna l’Apartheid ed è subito censura

Il 15 marzo, per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, la Commissione Sociale ed Economica dell’Onu per l’Asia Occidentale (ESCWA), composta da 18 Paesi arabi compreso lo Stato di Palestina, ha accusato esplicitamente Israele di imporre al popolo palestinese un regime di Apartheid basato sulla discriminazione razziale. Il Rapporto della Commissione, intitolato “Le pratiche israeliane nei confronti del popolo palestinese e la questione dell’Apartheid”, è stato presentato a Beirut e riflette i risultati di “una ricerca accademica corroborata da evidenza schiacciante”. “Accuse nauseabonde”, ha subito commentato il Portavoce del Ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nachshon, che si è spinto fino a paragonare il lavoro della Commissione a quello della rivista nazista Der Stürmer (in tedesco: L’attaccante), secondo il solito adagio per cui chi critica il governo di Israele è antisemita.

In realtà il Rapporto non fa che descrivere l’innegabile “frammentazione del popolo palestinese”, con i palestinesi divisi in 4 gruppi principali: i palestinesi di Israele, i palestinesi di Gerusalemme Est, i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza; e i palestinesi rifugiati o in esilio.

Che questa frammentazione non sia naturale ma “strategica”, e che rappresenti uno strumento per opprimere i palestinesi attraverso “leggi, politiche e pratiche diverse”, tali da configurare un regime di Apartheid, va praticamente da sé, ma lo spiegano con dovizia di particolari gli autori, Richard Falk, già Inviato Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi, e Virginia Tilley, Professoressa di Scienze Politiche presso l’Università del Sud dell’Illinois.

Le conclusioni degli autori si basano poi su diversi strumenti del diritto internazionale, tra cui la Convenzione Internazionale sulla Soppressione e la Punizione dell’Apartheid, e su esempi di leggi discriminatorie come la “Legge del Ritorno”, che garantisce a qualsiasi cittadino di religione ebraica di ottenere la cittadinanza israeliana indipendentemente dal legame con questa terra; mentre il diritto al ritorno dei cittadini palestinesi che possono provare la propria presenza ancestrale in Palestina viene ancora negato nonostante le disposizioni deliberate dalla Risoluzione 194 dell’Onu già nel 1948. Ciò dimostra una “prospettiva razzista” che vede nei palestinesi una “minaccia demografica”.

L’obiettivo della denuncia, ha spiegato il Segretario Esecutivo dell’ESCWA, Rima Khalaf, era quello di stimolare approfondimenti in seno alle Nazioni Unite sulle cause di questa situazione.

Peccato che, anziché dare seguito alla discussione, il nuovo Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, abbia voluto prendere le distanze dalla pubblicazione, tanto da chiedere che fosse rimossa dal sito della Commissione, come richiesto da Israele e dagli Stati Uniti.

A causa di questa censura, Khalaf ha presentato le dimissioni dal posto di Segretario Esecutivo. Dimissioni che sono state accettate, causando enorme delusione nella leadership palestinese. Hanan Ashrawi, Membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, ha infatti dichiarato che “Anziché soccombere al ricatto politico e permettere di essere censurate o intimidite, le Nazioni Unite dovrebbero condannare le azioni descritte nel Rapporto e chiamare Israele a risponderne”.

Grande merito, quindi, a Rima Khalaf, a cui il Presidente Abu Mazen ha voluto conferire la Medaglia d’Onore Palestinese, ringraziandola “per il coraggio con cui sostiene il nostro popolo e la nostra giusta causa”.

Vedi:

https://www.unescwa.org/news/escwa-launches-report-israeli-practices-towards-palestinian-people-and-question-apartheid

http://www.bacbi.be/pdf/un_apartheid_report_saved.pdf

http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4935991,00.html

http://www.jpost.com/Arab-Israeli-Conflict/UN-official-resigns-over-report-dubbing-Israel-apartheid-regime-484479

http://www.jpost.com/Arab-Israeli-Conflict/Palestinian-Authority-blasts-UN-over-removal-of-report-from-affiliated-website-484635

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=JW9DSxa61979107113aJW9DSx

http://english.wafa.ps/page.aspx?id=JW9DSxa62927053101aJW9DSx

II – La colonizzazione delle risorse naturali a volte non si vede ma c’è

L’occupazione della Palestina da parte di Israele non avviene solo in superficie. Dal 1967 Israele ha sistematicamente colonizzato le risorse naturali palestinesi e, nel campo degli idrocarburi, ha impedito ai palestinesi l’accesso alle proprie riserve di gas e petrolio. Tali restrizioni hanno costretto i palestinesi a dipendere da Israele per ciò che riguarda i bisogni energetici.

All’inizio di quest’anno vi sono state numerose proteste sulla Striscia di Gaza, per la scarsa energia elettrica accessibile solo per poche ore al giorno e tale da impedire il normale svolgimento della vita quotidiana nelle case dei palestinesi nonché le loro attività economiche e di sostentamento, comprese quelle necessarie alla sanità, all’istruzione e ai servizi igienici, a partire dagli impianti di depurazione dell’acqua.

Eppure, i palestinesi scoprirono i propri giacimenti di gas quasi dieci anni prima che gli israeliani raggiungessero l’autosufficienza. Era il 1999 quando il giacimento marino davanti alle coste di Gaza fu individuato e dato in concessione per l’esplorazione e l’estrazione alla compagnia britannica BG Group (successivamente acquisita dalla multinazionale Shell). In un momento in cui forte era la speranza riposta negli Accordi di Oslo del 1993, si pensò che questa ricchezza “piovuta dal cielo” potesse contribuire all’autodeterminazione del popolo palestinese. Questo non accadde per via degli impedimenti posti da Israele, inizialmente – quando non aveva ancora scoperto le proprie risorse – con lo scopo di trarne vantaggio economico; successivamente, con la scusa dei “motivi di sicurezza”.

Sta di fatto che il modo in cui la scoperta del gas ha diversamente influito sullo sviluppo economico in Israele e in Palestina, conferma la disparità di potere delle due parti: mentre gli israeliani si sono in questo modo garantiti la propria indipendenza energetica, i palestinesi non sono ancora riusciti a far fruttare una risorsa scoperta quasi venti anni fa.

Vedi:

https://al-shabaka.org/briefs/israel-uses-gas-enforce-palestinian-dependency-promote-normalization/

III – L’interrogazione parlamentare di Sinistra Italiana ricorda gli impegni del Governo italiano

Il 15 marzo, il parlamentare di Sinistra Italiana On. Erasmo Palazzotto ha presentato un’interrogazione, di cui era firmatario insieme agli On. Marcon, Fratoianni e Paglia, rivolta al Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale “per sapere (…) quali iniziative intenda immediatamente assumere come contributo alla composizione della crisi israelo-palestinese, per il pieno riconoscimento politico dello Stato di Palestina”.

La premessa, ha osservato Palazzotto, è che “da quasi settant’anni il popolo palestinese attende che venga riconosciuto dalla comunità internazionale lo Stato di Palestina”, mentre da un lato le Nazioni Unite continuano a denunciare le attività di colonizzazione israeliane che compromettono la soluzione dei due Stati; e dall’altro Israele disattende qualsiasi monito in questo senso insultando la comunità internazionale, tanto da approvare una legge che “regolarizza” perfino gli insediamenti costruiti su terreni privati di cittadini palestinesi.

In tutto ciò, ricorda Sinistra Italiana,  “il 27 febbraio 2015 l’aula di Montecitorio ha approvato una mozione – la n. 1-00745 – che impegnava il Governo italiano a continuare a sostenere in ogni sede l’obiettivo del riconoscimento della Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967, ricercando un’azione coordinata a livello internazionale e in particolare in seno all’Unione Europea e alle Nazioni Unite, in vista di una soluzione globale e durevole del processo di pace in Medio Oriente fondata sulla esistenza di due Stati, uno palestinese e uno israeliano.

Di qui l’esigenza di rinnovare l’impegno preso, compiendo passi significativi nella direzione delineata, affinché il popolo palestinese possa finalmente godere dei diritti umani fondamentali quotidianamente calpestati, cessando di subire le vessazioni di cui è costantemente vittima a causa di un conflitto evidentemente asimmetrico e sotto gli occhi di tutti.

Vedi:

http://www.agenpress.it/notizie/2017/03/14/domani-governo-risponde-question-time-quesito-riconoscimento-palestina/

http://www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=assemblea_allegato_odg&idlegislatura=17&anno=2017&mese=03&giorno=15&back_to=http://www.camera.it/leg17/1

http://www.radioradicale.it/scheda/503082/seduta-760a-xvii-legislatura

IV – Se a Gaza si producono kippah

Nella travagliata economia di Gaza, un sarto del campo profughi di Shati è riuscito a individuare un nuovo filone di export e adesso è in grado di offrire lavoro alla sua gente. L’uomo si chiama Muhammad Abu Shanab, ha 61 anni e di recente si è specializzato nella produzione di kippah, il copricapo degli ebrei religiosi.

In passato, l’industria locale di sartoria ha conosciuto periodi di prosperità durante i quali era in grado di sopperire alle necessità di Gaza e di esportare in Paesi arabi ricchi di risorse, fra cui quelli del Golfo. Poi, il blocco della Striscia insieme alla concorrenza dei prodotti tessili provenienti dall’Estremo Oriente e dalla Turchia hanno messo in ginocchio il settore. Trovatosi a corto di idee, Abu Shanab avrebbe telefonato ad un suo vecchio conoscente in Israele, di nome Avi, e sarebbe nata così l’idea di produrre a Gaza i copricapo per gli ebrei religiosi di Israele e degli Stati Uniti. “Avi mi ha spiegato che per produrre le kippah non è necessario essere ebrei. Bisogna però essere persone di fede, e pure di animo”, ha spiegato il sarto palestinese. E siccome l’Islam rispetta tutte le fedi, inclusa quella mosaica, lui non ha aspettato altro per cominciare a lavorare nel campo profughi, dove adesso si producono circa 200 kippah al giorno, compreso il modello riservato al mercato statunitense.

Abu Shanab ha insistito che la sua prima preoccupazione è quella di dare lavoro ai disoccupati, e adesso ha già 50 impiegati che possono arrivare a 100.

Fiutando le potenzialità economiche del ricorso a una manodopera con poche esigenze, uomini d’affari israeliani stanno adesso verificando con Abu Shanab se sia in grado di produrre a prezzi ragionevoli anche i neri soprabiti tipici degli ebrei ultraortodossi: potenzialmente un mercato di centinaia di migliaia di persone.

L’inaspettata sintonia fra persone di fede dalle due parti della barricata viene adesso vista come un messaggio di speranza.

Vedi:

http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2017/03/14/ansa-la-storia-il-sarto-di-gaza-che-vende-kippah-a-israeliani_85937bf4-a5f4-4dc8-8513-791855be1bad.html

http://www.reuters.com/article/israel-palestinians-skullcaps-idUSKBN16K190