Newsletter No 19 – 24/3/2016

“Nelle sofferenze di Gesù Cristo noi vediamo le nostre stesse sofferenze. I vangeli della Passione non raccontano solo la storia di Gesù, ma anche la nostra. Questo non significa che non crediamo alla risurrezione e alla speranza che ne deriva. Ma non siamo ancora arrivati a questo punto” 

Padre Jamal Khader, Rettore del Seminario di Beit Jala

Indice:

  1. Importanti risoluzioni del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU
  2. I vescovi di Terra Santa contro l’occupazione
  3. Stati Uniti e Europa contro gli insediamenti
  4. L’indagine sulle esecuzioni sommarie è sempre più urgente
  5. La giornata della terra

I – Importanti risoluzioni del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU

Giovedì 24 marzo il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (Unhrc), con sede a Ginevra, ha approvato quattro risoluzioni molto attese sull’autodeterminazione, la situazione dei diritti umani, gli insediamenti e l’obbligo di rispondere delle proprie azioni, riaffermando i diritti inalienabili del popolo palestinese.

La decisione è stata salutata con molto favore dall’Ambasciatore della Palestina presso il Consiglio, Ibrahim Khreisheh, che ha ribadito l’“obbligo” della comunità internazionale di rendere effettivi i diritti umani e il diritto umanitario. Tra gli strumenti volti a questo scopo, l’Ambasciatore della Palestina ha particolarmente apprezzato la banca dati contenente i nomi delle aziende “che contribuiscono all’occupazione di Israele e alla colonizzazione dello Stato di Palestina”. In questo modo, chiunque (investitori e consumatori) voglia evitare di avere a che fare con aziende implicate nell’occupazione può verificare se siano nell’elenco gettando un occhio alla lista. La risoluzione è stata approvata dal Consiglio con 32 “sì”, nessun voto contrario, e l’astensione di 15 Paesi, in gran parte europei, tra cui il Belgio, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna che pur era stata tra i pochi a criticare il piano assieme agli Stati Uniti. Khreisheh ha rivolto ai Paesi favorevoli un sentito ringraziamento per un voto che rappresenta “un messaggio di speranza per il nostro popolo” e ha chiesto a tutti di considerare l’impatto che può avere la mancanza di rispetto per il diritto internazionale.  Diversa, ovviamente, la reazione di Israele. Si tratta di una “blacklist”, ha immediatamente commentato l’ambasciatore israeliano presso il Palazzo di vetro, Danny Danon, convinto che il Consiglio dei diritti umani sia “ossessionato” da Israele. “Invitiamo tutti i governi responsabili a non onorare le decisioni del Consiglio delle Nazioni Unite che discriminano Israele“, è stato invece l’appello lanciato dal Premier Netanyahu che non ha esitato a definire l’Unhrc  “un circo anti-Israele”, e ora spera di trovare interlocutori solidali.

Vedi:

http://www.theguardian.com/world/2016/mar/24/occupied-territories-un-vote-list-firms-trade-palestinian-israel

http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/03/26/lonu-risponde-al-terrorismo-boicottando-israele___1-v-139928-rubriche_c350.htm

 

II – I vescovi di Terra Santa contro l’occupazione

Il Rapporto pubblicato l’8 marzo dal Pew Research Center di Washington si intitolava “La società di Israele divisa da un punto di vista religioso”, ma denunciava al contempo una profonda divisione sociale e politica, in cui la questione palestinese risultava centrale, segnalando che quasi metà della popolazione israeliana di religione ebraica sarebbe favorevole all’espulsione della popolazione araba da Israele. A questi dati ha deciso di replicare l’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa (AOCTS) presieduta dal Patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, che riunisce tutti i vescovi delle differenti comunità cattoliche con giurisdizione in Terra Santa, con una dichiarazione della Commissione Pace e Giustizia del 21 marzo, intitolata “Oltre l’occupazione e lo scontro. Verso una comune intesa”.  La domanda da cui partono i religiosi è semplice: “Perché questo conflitto è andato avanti così a lungo?”.

In fondo, si legge, gli ebrei sono riusciti a costruirsi uno Stato sul 78% del territorio palestinese, nel 1948. I Palestinesi, non solo non sono riusciti ad avere uno Stato, ma nel 1967 si sono visti occupare il rimanente 22% del territorio.

Nonostante molti israeliani dichiarino di non voler essere degli “occupanti”, l’AOCTS ci ricorda che “la fine dell’occupazione dipende principalmente da chi occupa”. Ed è solo la fine dell’occupazione che può porre termine alle violenze. Il paradosso, secondo questa Assemblea, si raggiunge quando gli occupanti accusano gli occupati di una presunta istigazione nei loro confronti, come se non fosse normale raccontare ai propri figli la storia del loro popolo, come se questo fosse un buon motivo per mantenere l’occupazione, come se la voglia di resistere fosse una causa e non l’effetto di un’occupazione che priva i palestinesi della libertà e della dignità umana.

Vedi:

http://www.pewforum.org/2016/03/08/israels-religiously-divided-society/

http://en.lpj.org/2016/03/22/justice-and-peace-beyond-occupation-and-confrontation-towards-a-common-understanding/

 

III – Stati Uniti e Europa contro gli insediamenti

Sono state giornate importanti quelle che hanno visto, uno dopo l’altro, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania condannare la decisione di Israele di estendere ulteriormente gli insediamenti illegali in Cisgiordania.

Il 16 marzo la Radio dell’Esercito Israeliano ha annunciato che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il suo Ministro della Difesa Moshe Yaalon avevano approvato la designazione a “terra di Stato israeliana” di circa 234 ettari di terreno della Cisgiordania occupata nei pressi del Mar Morto e di Gerico. Immediata la reazione di Peace Now, la ONG israeliana che segue e si oppone da sempre agli sviluppi degli insediamenti: secondo questa organizzazione una confisca di queste proporzioni sarebbe la più consistente degli ultimi tempi ed andrebbe nella direzione già pianificata di espandere gli insediamenti già presenti nell’area.

A livello internazionale, la prima reazione è stata quella di John Kirby, portavoce del Dipartimento di Stato Americano, il quale ha subito dichiarato che gli Stati Uniti sono preoccupati da queste mosse. “Si tratta – ha detto – dell’ennesimo passo in direzione dell’espropriazione di terre palestinesi (…) che mina le fondamenta della prospettiva dei ‘due Stati’ “.

A Kirby ha fatto eco il giorno dopo il governo inglese, chiedendo a Israele di interrompere queste attività che ha definito “illegali” e che ostacolano chiaramente la pace. In particolare, il portavoce del Ministero degli Esteri britannico si è scagliato contro la pratica israeliana di dichiarare “terra di Stato” molti terreni della Cisgiordania.

Anche il portavoce del Ministero degli Esteri tedesco ha ravveduto nelle recenti espropriazioni l’intento di espandere gli insediamenti e il rischio di rendere ancora più difficile un accordo di pace con i palestinesi, “specialmente in un momento di tensioni come questo”.

Sulla stessa linea il messaggio partito da Parigi tramite il portavoce del Ministero degli Esteri Romain Nadal, impegnato con il suo governo nell’organizzazione di una conferenza internazionale volta a finalizzare la soluzione dei “due Stati”.

In seguito a tutte queste dichiarazioni, è arrivata anche quella dell’Unione Europea, che si è detta “fermamente opposta alla politica degli insediamenti di Israele e alle azioni prese in questo senso, come le demolizioni, confische, espulsioni, trasferimenti forzati, restrizioni del movimento e dell’accesso ai luoghi”.

Ad oggi, più di mezzo milione di coloni vivono in 237 insediamenti illegali sparsi per la Cisgiordania, ivi compresa Gerusalemme Est. Israele amministra circa 20mila zone industriali estese su 1.365 ettari della Cisgiordania; i coloni vi coltivano 9.300 ettari di terreno, sfruttano 11 cave che coprono il 25% del mercato della ghiaia israeliano, e gestiscono 187 centri commerciali dentro agli insediamenti.

Vedi:

http://english.pnn.ps/2016/03/18/us-uk-germany-france-slam-israeli-settlement-expansion-in-the-occupied-west-bank/

IV – L’indagine sulle esecuzioni sommarie è sempre più urgente

In una dichiarazione del 28 marzo, il Segretario del Comitato Esecutivo dell’OLP, Saeb Erekat, ha comunicato che in seguito alla richiesta inviata a ottobre a Christof Heyns, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulle Esecuzioni Sommarie,  l’OLP ha appena formalizzato, durante un incontro con l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente Nickolay Mladenov, l’invito ad intraprendere un’indagine ufficiale sulle uccisioni a sangue freddo di cittadini palestinesi per mano delle forze d’occupazione israeliane.

A cominciare dal 13 settembre, con l’uccisione del diciottenne Hadil Hashlamon, 207 casi di esecuzioni extragiudiziali attendono di essere investigati a livello internazionale. Non si tratta di eventi isolati e Israele deve risponderne.

Durante l’incontro, il rappresentante del popolo palestinese ha voluto sollevare anche la questione delle punizioni collettive, compresa la mancata restituzione dei corpi dei cittadini palestinesi uccisi dall’esercito israeliano, la demolizione delle case dei loro familiari e il conseguente esilio degli stessi, nonché la piaga degli insediamenti, con un occhio di speciale apprensione per le 900 nuove unità abitative pianificate nell’insediamento di  Pisgat Ze’ev, tra Gerusalemme Est occupata e Ramallah.

Ovviamente, ha sottolineato Erekat, l’attuale posizione della Palestina all’interno di organizzazioni internazionali quali la Corte Penale Internazionale, fa sì che le autorità palestinesi possano collaborare al meglio per fornire l’evidenza necessaria all’avvio di indagini che rendano giustizia al popolo palestinese.

Vedi:

http://www.nad-plo.org/etemplate.php?id=630

 

V – La giornata della terra

Il 30 marzo si è celebrato il quarantesimo anniversario delle Giornata della Terra, una giornata che ricorda come, 40 anni fa, i cittadini palestinesi si ribellarono contro l’espropriazione delle loro terre i Galilea.  L’eroismo dei cittadini di Sakhnin, Deir Hanna, Arrabeh, Nur Shams, Kufr Qanna e di altri villaggi in Galilea, che portò al sacrificio di 6 vite umane, si ricorda da allora ogni anno ed è divenuto un esempio per l’intero popolo palestinese.

 Lo ha voluto sottolineare, nella ricorrenza, il Segretario del Comitato Esecutivo dell’OLP, Saeb Erekat, mettendo in guardia sulle “politiche razziste di Israele, disegnate per consolidare l’idea di uno ‘Stato ebraico’“. Per questo il governo, anziché sostenere la soluzione dei “due Stati”, continua a considerare tutta la Palestina storica come parte di Israele, con lo scopo di imporre un regime di Apartheid. Ciò spiega il trasferimento forzato di intere comunità palestinesi da Gerusalemme Est, Hebron e la Valle del Giordano, sotto la stessa minaccia che incombe sui beduini di Al Hiran ad Al Naqab, nel deserto del Negev.

A proposito di razzismo, Erekat ha condannato, ancora una volta, i trattamenti discriminatori a cui sono sottoposti i cittadini palestinesi di Israele.

Incontrando i rappresentanti della UE, Erekat ha invece lamentato la posizione dell’Unione Europea sulla Palestina allo scorso Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, così come i suoi attacchi contro le campagne di resistenza nonviolenta all’occupazione. Per questo, è stata inviata un’apposita lettera con richiesta di chiarimenti all’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini.

L’Ambasciatrice dello Stato di Palestina in Italia, Mai Alkaila, partecipando alla commemorazione organizzata il 2 aprile a Roma dalla Comunità Palestinese di Roma e del Lazio, dal Comitato per la Pace del VII Minicipio, dall’Associazione Amici della Mezza Luna Rossa Palestinese e  dall’Associazione Via Libera, ha sottolineato le durezze imposte al popolo palestinese, circondato dagli insediamenti e dall’enorme Muro alto 9 metri che viviseziona e soffoca con un lungo interminabile nodo scorsoio la Cisgiordania, separando persone, vite, affetti; con quasi 7mila dei propri cari rinchiusi nelle carceri israeliane; umiliato in uno stillicidio di angherie e crudeltà quotidiane, soprattutto a Gerusalemme Est; privato della propria terra e delle proprie case; deportato e costretto ad un esilio forzato che sembra non aver mai fine.

Vedi:

http://www.nad-plo.org/etemplate.php?id=631